In questi giorni si fa un gran parlare della tragedia dell'isola del Giglio.
Il naufragio rappresenta da sempre una paura quasi ancestrale, da quando l'uomo naviga, affrontando il mare, ne subisce il fascino e il terrore.
Non ho nessuna intenzione di affrontare il tema che tiene così impegnati giornalisti e autorità.
Amo il mare e soprattutto rimango sempre incantato dalle metafore che riesce a evocare.
Questa volta mi spinge a riflettere sui motivi profondi che mi fanno amare il mio lavoro di insegnante.
Spingersi con passione e fatica nella direzione del miglioramento culturale di altri è come lanciare una fune di salvataggio in un mare burrascoso.
Non ti può fermare di certo la fatica o il dolore, quando vedi qualcuno che non riesce ad afferrare la fune.
Speri che chi non vedi più se la possa essere cavata in altro modo, possa essere felice lo stesso. Non vuoi mai perdere questa speranza.
Ti arrabbi e imprechi, alcune volte, mai poi ricominci a lanciare. Pensi a coloro che si sono avvicinati e hanno bisogno di cure. Non pensi ad altro.
Sai che tutto ciò che puoi dare non lo avevi prima di averci provato. Lo hai conquistato nuotando.
Quello che (de)capitava è capitato. Ma tu capitano, dov'eri ? Potevi ?
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